Octo_Pills – Facebook e YouTube: tech o media company?

Spesso siamo abituati ad usare, e quindi a concepire le piattaforme Facebook e YouTube come una fonte di intrattenimento.
Se è vero- e per quanto mi riguarda lo è – che l’utilizzo sia quasi esclusivamente di questo tipo, è adottare un altro punto di vista: cioè che queste non siano solo piattaforme social, bensì piattaforme di intrattenimento.

In questo senso allora abbiamo a che fare con un media…

Chi produce i contenuti?

Questo non costituisce certo una novità, ma la cosa secondo me interessante è comprendere, e valutare, questi media effettuando un ragionamento comparativo, in particolar modo con altre piattaforme di intrattenimento. Ecco che così facendo, iniziamo a notare alcune differenze interessanti…

La prima tra queste sono i contenuti: nel caso delle piattaforme social succitate è utile domandarsi chi produce tali contenuti e quanto spendono le due piattaforme per crearli. Be’ la risposta è semplice: noi creaiamo i contenuti, loro non spendono un euro per diffonderli sui loro canali.

Pertanto se le media company vere e proprie sono costrette a spendere miliardi di Dollari all’anno in costi di produzione, Facebook e Youtube competono, nel frattempo con il video del gattino o dei piatti rotti in testa, erodendo una parte consistente della raccolta pubblicitaria ai media e agli editori tradizionali. Senza – appunto – spendere un Euro (o un Dollaro) in costi di produzione.

Anche qui forse sto scrivendo una cosa di cui sei già al corrente, perché si tratta di un trand che perdura ormai da anni, quello che magari non sai è come sono suddivise le entrate che questi introiti generano.

Stai leggendo un articolo di Michele Campagnoni, CEO di Octo_Net, Startup Innovativa milanese attiva nel settore della Marketing Technology. 
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Da dove arrivano i soldi?

La prima cosa che devi sapere è che ciò che crea lo spartiacque tra i due colossi e gli altri media è il fatto che i primi due, da soli, raccolgono il 51% del traffico pubblicitario mobile. Solo questo dato basta per affermare che di fatto – almeno nell’ambito mobile – sono le media company più grandi del mondo.

Altro dato interessante è relativo all’approccio a come vengono veicolati i contenuti stessi.

In questo caso è paradossale il fatto che siano gli stessi produttori di contenuti a pagare queste piattaforme per diffonderli. Ancor più incredibile è che spesso siano gli stessi editori, ai quali le piattaforme consumano terreno dalle fondamenta, a sponsorizzare tali contenuti.

Un punto successivo, è quello relativo alla scelta dei contenuti.

Chi sono veramente?

Qui siamo davanti all’aspetto a mio avviso più affascinante di tutti…

Ora stiamo parlando di super giganti technologici, le cosiddette Big Tech, che però svolgono – di fatto – un’azione editoriale (tramite le LORO policy di pubblicazione) scegliendo cosa può essere pubblicato e cosa no. Tutto questo senza passare però sotto alcun regolamento che al contrario regola le attività dei loro concorrenti. Il motivo è semplice: loro sono piattaforme social, non media company.

Ciò gli permette di poter rinunciare a quel briciolo di etica che i gruppi editoriali tradizionali sono costretti ad avere per il semplice fatto che stare sotto il cappello della Tech Company della Silicon Valley, oltre che ad essere molto figo e remunerativo, permette loro di avere un approccio chiaramente più libero e soprattutto molto meno costoso (le redazioni costano…).

È un meccanismo astuto, che consente di non sottostare alle regole dei concorrenti, e a non avere i costi dei concorrenti: le redazioni costano, i redattori costano. Gli algoritmi e gli automatismi no.

Citando il paragone che fa Scott Galloway, professore alla NYU che nel suo libro the Four parla approfonditamente di questo caso, nel 2017 l’ultima quotazione di Facebok la stimava in 448 miliardi dollari e circa 17.000. dipendenti: ci stanno tutti dentro un palazzetto dello sport.

Disney, media company tradizionale di grande successo, vale 181 miliardi e impiega 185.000 persone.

Siamo di fronte a un caso di estrema polarizzazione della distribuzione dei dividendi.

Se le media company tradizionali danno lavoro a migliaia di persone e si spartiscono tra tante persone la torta dei ricavi, qui abbiamo a che fare con TechCompany che si comportano da media company i cui principali investitori –  tutti noi –  contribuiscono ad arricchire bravissimi e talentuosissimi imprenditori che tutto fanno tranne che creare nuovi posti di lavoro.

E noi? Un auspicio per il futuro…

Anzi…

La Tech Economy, se interpretata in questo modo, è chiaro che porta al più totale superamento del vecchio sistema. I posti di lavoro si perdono perché è lavoro stesso che letteralmente sparisce perché viene automatizzato.

Chiaramente, e per fortuna, nascono, e nasceranno sempre di più, anche perché è fisiologico, nuove professioni, intere nuove categorie professionali sono già nate, quindi non tutto va in fiamme ma semplicemente tutto si evolve.

L’importante è essere consapevoli di questa evoluzione, oltre che a testimoni.

Pertanto io auspico un ruolo delle scuole in tutto questo, dove vengano istituzionalizzati l’insegnamento di materie quali, per esempio la netiquette, e si educhino gli studenti a comportamenti che evitino il cybver bullismo, si spieghi ai giovani cosa c’è dietro al mondo dei social e via discorrendo.

Se infatti uniamo all’educazione la divulgazione, ciò che otterremo, sarà appunto maggiore consapevolezza.

E grazie a questa, forse, da questa evoluzione veloce e costante, potremo trarne vantaggio anche noi.