La consapevolezza ci salverà dalla tecnofobia.

Nella vita privata, come credo quasi tutti noi, ho amici e conoscenti che fanno un lavoro molto distante dal mio. Soprattutto con questi ultimi, ma non solo, spesso mi capita di sostenere lunghe discussioni circa la cessione della privacy alle marche. Il tema è talmente ricorrente, che quasi per spirito di necessità ho deciso di mettere nero su bianco quelli che, secondo me, sono gli errori di valutazione con cui spesso mi trovo ad interagire. La parola chiave intorno alla quale ruota tutto il concetto Consapevolezza.
Tutti noi utilizziamo quotidianamente smartphone connessi alla rete e in generale navighiamo online per ottenere una molteplicità di informazioni. Sappiamo di essere “spiati”, ma lo permettiamo ogni giorno, ogni minuto. Perché? Concediamo una parte della nostra privacy, più o meno consapevolmente, per ricevere in cambio una migliore gestione del nostro tempo.

Immaginate di voler raggiungere il Belgio in treno, e di non avere a disposizione la rete. Dovreste recarvi in biglietteria o in agenzia di viaggi solo per sapere il costo del biglietto e gli orari. Certamente online è più comodo.
Qualcuno obietta, anche giustamente, che le aziende, grazie alla profilazione dei nostri dati di navigazione, trattengono e usano i nostri gusti, in nostri interessi. La risposta è semplice: è vero!

E io aggiungo: lo fanno da sempre, solo che hanno trovato un modo per farlo meglio.
I brand profilano i propri clienti o potenziali tali da quando esiste il marketing. Quando parliamo di aziende, è utile pensare non a vecchi spioni del web nascosti dietro a chissà quale server, ma piuttosto a organizzazioni di persone che vogliono fare il mestiere più vecchio del mondo: vendere. Nella fattispecie, i propri prodotti. Le Aziende serie quindi, non hanno alcun interesse a sapere cosa facciamo nel nostro intimo per poi rivendere alla CIA o Putin il dato, piuttosto sono ben più interessate a ottimizzare i costi ed evitare di indirizzare messaggi pubblicitari a persone a cui non gliene frega niente del loro prodotto.

La parola chiave per navigare on-line è: consapevolezza.

Il vantaggio per noi? Essere profilati, in tal senso, ci permette di fruire di una pubblicità che forse, finalmente, ci aiuta ad agevolare i nostri processi d’acquisto, e a compierli in maniera più consapevole. Conoscete qualche vegano a cui piace essere esposto a pubblicità di carni bovine? Io no, ma ne conosco qualcuno al quale sapere se esiste un ristorante vegano nelle sue vicinanze potrebbe essergli utile. Certo le aziende devono essere responsabili, chiare e oneste nei nostri confronti. E laddove non lo fossero, occorre che sia il legislatore ad intervenire sanzionando coloro che non rispettano le regole.

Ma se i propulsori di questa digitalizzazione hanno queste ferree responsabilità, anche noi utenti abbiamo le nostre. Non abbiamo solo il diritto ad essere informati, oggi come oggi abbiamo il dovere di informarci. Chi di noi legge l’intera privacy policy di un sito web prima di navigarci? Davvero pochi, eppure è lì che l’azienda è obbligata a indicarci che fine fanno i nostri dati di navigazione. Se non ci sta bene, possiamo non proseguire con la navigazione. Eppure quasi tutti distrattamente clicchiamo su ok, senza soffermarci sul nostro diritto – dovere di essere consapevoli.
Se uno sconosciuto venditore vi chiedesse il numero della vostra carta di credito al telefono glielo dareste? Chiaramente no. Ma tutti almeno una volta nella vita abbiamo inserito i codici della nostra carta online, più o meno con leggerezza.

É quindi necessaria un’educazione digitale di massa…

Per concludere se decidiamo di non voler condividere nulla di noi, è più che legittimo, ma allora chiediamoci a cosa siamo pronti a rinunciare e organizziamo i percorsi alternativi che vogliamo praticare. Io non credo ci sia bisogno di questo, piuttosto sono convinto che sia sempre di più necessario educare alla digitalizzazione, formando una cultura di massa che faccia della consapevolezza del proprio comportamento digitale una leva di miglioramento sociale, sia dal punto di vista delle aziende, che – e soprattutto – dei privati cittadini.